Software e libero mercato


Recentemente è riapparsa in rete una vecchia lettera aperta di Bill Gates, il cui destinatario principale era l’Homebrew Computer Club, una associazione di hobbysti di computer.

Copia della lettura spedita all’Homebrew Computer Club (Fonte: Wikipedia)

La lettera parla del BASIC venduto insieme al computer “Altair” del MITS e ribadisce quanto già scritto da Bunnel e da Roberts, proprietari dell’azienda, per la quale Bill Gates aveva scritto l’interprete di questo linguaggio, con queste parole (traduzione riportata su Wikipedia):

Perché questo? La maggior parte degli hobbisti deve essere consapevole che molti di voi rubano il vostro software. L'hardware va pagato, ma il software sembra sia qualcosa da condividere. A chi gliene importa se le persone che ci hanno lavorato sopra vanno pagate?

La lettera è figlia di un periodo in cui l’home computing stava, a fatica, creandosi una “nicchia” economica alternativa a quella dei mainframe. L’espressione di apertura della lettera, “hobby market”, la dice lunga su come Bill Gates considerasse la comunità di cui faceva, inevitabilmente, parte. Per non parlare del riutilizzo delle leggi sul copyright “as is” sui sorgenti e la pretesa di ricevere delle “royalty” per la vendita dello stesso, che hanno rappresentato e rappresentano una anomalia economica.

Paul Allen and Bill Gates at Lakeside School in 1970. Fonte: Wikipedia

In generale, colui che compra una macchina è l’unico che la può usare (o, se la vuol condividere, non avrà la macchina in esclusiva). Se pure se ne riproduce il software, senza quell’hardware specifico il software non lo si può usare, è del tutto inutile.

Nella fattispecie Bill Gates fu pagato dal MITS per il suo lavoro di porting del BASIC sulla sua macchina e accusò poi gli hobbisti di aver rubato il suo lavoro, solo perché copiarono una bobina di carta con sopra delle istruzioni che solo l’hardware del MITS poteva eseguire. Pertanto, senza il computer MITS, quel software era inutile.

Quindi è logico (e naturale) che il software sia considerato un bene gratuito, perché il vero costo lo si è pagato acquistando l’hardware.

Lo sviluppo software richiede investimento di tempo ed energia per realizzare la prima copia, dopo di che le altre hanno un costo marginale.

E’ però anche vero che il software ha un costo di produzione, legato alla ricerca e sviluppo, per esempio l’apprendimento nella programmazione di un certo hardware o nella progettazione di specifici algoritmi.

La ricerca e sviluppo si divide in ricerca e sviluppo di base (senza una specifica committenza) e in ricerca e sviluppo applicata (con una specifica committenza). La prima di solito la paga lo Stato (Università e Centri di Ricerca, pubblici e privati) cioè tutti attraverso la tassazione, e i frutti di tale lavoro dovrebbero esser di tutti; la seconda la pagano gli investitori privati, che ritengono di poter vendere un certo numero di implementazioni, e i frutti dovrebbero esser (giustamente) loro.

Le copie successive a quelle previste costituiscono, nei fatti, una rendita.

Il costo marginale di riprodurre un software è trascurabile rispetto a quello per produrre la prima copia, che di solito dovrebbe esser pagato da chi lo commissiona per intero.

In alcuni contesti, il costo della prima copia era già fuori mercato, e quindi si sopperiva suddividendo il costo tra più clienti, ognuno pagante una quota parte e sulla garanzia di tale vincolo si utilizzavano (sorpresa!) strumenti hardware e non software.

Detto in altri termini: è giusto che una azienda, operando in regime di rischio di impresa, spenda X e voglia rientrare di X+Y (dove X è la spesa mentre Y è l’utile). Per far questo spera di vendere N copie del software e le vende quindi a un prezzo di (X+Y)/N l’una. Se ne vende complessivamente N ha conseguito, nei fatti, il risultato voluto.

Il problema è la copia N + 1 (e le successive).

Queste non rappresentano né un rientro delle spese di ricerca e sviluppo né un utile programmato: è pura e semplice rendita. Una distorsione del libero mercato, perché una azienda guadagna senza spender nulla.

Per fare un paragone: non si può vendere hardware se non lo si produce, e quindi il costo di produzione (X) tende sempre a crescere; inoltre, il “pezzo” di hardware che si vende diventa proprietà di chi lo acquista, che può farne ciò che vuole — compreso rivenderlo o cambiarne destinazione, e questo con il software non si può fare.

Il software è venduto come un vero e proprio “bene”, e pacchettizzato.

Negli USA tutto ciò è sancito da leggi molto restrittive (compresa la legislatura sui brevetti), che nei fatti usano risorse pubbliche per proteggere interessi privati: detto in altri termini, la collettività paga il costo di proteggere il diritto di una azienda di avere una posizione di rendita.

In Europa, invece, si è capito bene il problema e si è limitata l’applicabilità dei brevetti al solo software legato all’hardware. Questo proprio per il discorso di cui sopra.

E qui arriviamo al punto: il vero problema non è dar un costo al software ma l’imporre il pagamento di una royalty slegata dall’effettivo investimento di tempo e risorse di produzione, che è stata la “ricetta” che Bill Gates ha introdotto nell’informatica, e che prima non c’era.

Quindi, la prima conclusione che possiamo trarre dalla lettera di Bill Gates è che era in errore: la comunità giudicava (e giudica) il software come gratuito perché è la cosa più corretta dal punto di vista economico.

Per proteggere dalla copia si usavano i “dongle” hardware. Fonte: Wikipedia

Questo, ovviamente, non significa che si abbia il “diritto” di copiare, ma significa che la protezione dalla copia non è tanto affar pubblico quanto privato. Non è corretto che, perché un singolo possa disporre come vuole della propria creazione, questi debba addossare agli altri il costo di tale esercizio.

Prendendo ispirazione dagli albori dell’informatica, quando non c’erano leggi specifiche che proteggevano il software dalla copia, le case di produzione si attrezzavano con i dongle hardware o le tecniche anticopia. Quelle vanno benissimo per proteggere gli investimenti nel campo del software perché ci vuole uno sforzo non indifferente per superarle, e ostacolavano la copia fatta “per sfizio”.

I produttori di software hanno, in altri termini, tutto il diritto di proteggere i propri investimenti con i mezzi che preferiscono, ma con mezzi privati e non pubblici.

Queste soluzioni non costituiscono una posizione di rendita perché gli apparati hardware andranno, comunque, acquistati e rappresentano un costo proporzionale al numero di pezzi venduti. Ricadevano, in altri termini, nei costi di produzione di ogni copia, ed era persino più giusto (economicamente parlando).

Questa logica commerciale fu sostituita da quella suggerita da Bill Gates , che rappresentò una “rottura” perché imponeva una logica mutuata un po’ dal copyright editoriale e un po’ dall’industria dei prodotti al consumo, che “pacchettizza” il software in modo da considerarlo un bene in vendita come un altro.

Copia del BASIC 8K su nastro cartaceo. Fonte: Wikipedia

Prendiamo ad esempio il BASIC Altair citato nella lettera: costò due mesi di lavoro di una persona (per stessa ammissione del suo autore) e di tre persone che cita per il lavoro di “supporto allo sviluppo”. Il costo di tre persone di supporto non è neanche paragonabile al costo di un progettista software (dell’epoca).

Una qualsiasi azienda gli avrebbe potuto corrispondere l’intero importo, senza batter ciglio, e la Commodore pagò quasi un ordine di grandezza in più per avere il suo BASIC sul Commodore 64. Una volta pagato l’hardware, non c’è motivo di riconoscere nulla a chi ha programmato il software, perché è stato già pagato.

A tal riguardo vi è un aneddoto illuminante: Bill Gates offrì inizialmente una licenza basata sul pagamento di una royalty di 3 dollari per ogni installazione, ma Jack Tramiel, l’allora capo di Commodore, rifiutò la proposta con la famosa frase “Sono già sposato”.

Jack Tramiel, fondatore di Commodore. Autore: SAL VEDER, Copyright: AP1984

Alla fine si misero d’accordo per 25.000 dollari per una licenza perpetua ed illimitata. All’epoca dei fatti (1977) questo era lo stipendio massimo di un anno per un progettista software e Bill Gates li guadagnò con una singola transazione.

Tornando al BASIC Altair, la ricostruzione della vita di Bill Gates rispetto alla creazione di questo “prodotto” ricade quasi nel mito. Pare che Bill Gates sfruttò, ad esempio, il PDP dell’università e ne affittò uno privatamente solo per completare il lavoro. Qualcuno parla di 40.000$ di spese per produrre tale software. Il che, francamente, suona strano perché era poco meno del doppio della paga annuale per un progettista software, negli anni ’70.

Siamo invece sicuri degli introiti, per i quali si può concludere che ha deciso liberamente di NON farsi pagare per il proprio lavoro. Altrimenti, si sarebbe dovuto far pagare quei 40.000 $ (o quello che era). Il fatto che abbia preferito farsi pagare assai meno (3.000 $) per la speranza di avere maggiori profitti dalla vendita dei MITS si chiama “rischio di impresa”.

Non c’entra nulla col fatto che il software vada o meno pagato — nei fatti, gli hobbisti pagavano MITS per l’hardware (era inevitabile!) e questa dava parte degli utili a Gates.

Esemplare del MITS Altair 8800 in mostra allo Smithsonian
Autore: Ed Uthman from Houston, TX, USA
Fonte: Wikipedia

Ammesso e non concesso che la cifra spesa corrispondesse vero, per pareggiare i conti sarebbero state sufficienti circa 1.230 copie [cioè la vendita di 1.230 computer MITS], e infatti la MITS ne vendette almeno 2.500… oppure solo 74 copie se lo vendeva separatamente dal MITS, perché ogni copia dell’Altair BASIC costava 500$.

Ma tutto questo cosa ha a che vedere con l’accusa che gli “hobbisti rubano il software”, fatta da Gates nella lettera?

Il fraintendimento che si crea spesso, quando si affronta questo argomento, è pensare che si metta il dubbio il fatto che l’autore di una qualsiasi cosa (sia essa una creazione manuale che mentale) abbia il diritto di venderla al prezzo che stabilisce, e la relativa certezza che le idee (soprattutto quelle geniali) abbiano un proprietario.

Il brevetto è l’unico modo legale in cui un creatore può chiedere allo Stato la protezione del guadagno derivante dalle proprie opere di ingegno.

“Mai prima nella storia l’innovazione offrì
la promessa di così tanto a così tanti in così poco tempo”.

Qualsiasi idea, anche la più geniale, è il disposto combinato di altre idee e non esiste, quindi, nella realtà un’idea “innata”. Con questa stessa logica non si sarebbe autorizzati a vendere la propria idea se non si avesse la proprietà delle idee alla base della propria, il che è irrealizzabile.

Questo è anche il motivo per cui le idee non si brevettano, ma si brevettano solo le implementazioni delle idee che portano a un progetto tecnico. In cambio di questa esclusività (limitata nel tempo) l’inventore deve divulgare tutti i particolari dell’invenzione, in modo che altri possano migliorarla e cercarne nuovi usi.

In altri termini: l’inventore trae beneficio da questo periodo di controllo esclusivo sulla sua invenzione mentre la società può trarre beneficio dai miglioramenti apportati.

Come si concilia questo con l’impossibilità di copiare il software, o di accedere ai suoi sorgenti, per studiarli e riprodurli, al fine di apportare miglioramenti?

Non si concilia: e infatti, tra le caratteristiche che deve avere un software per essere brevettato, in Europa, è che sia strettamente collegato ad uno specifico hardware.

Bill Gates durante una presentazione. Fonte: Flickr, Alan Dean

Il software, da solo, non è brevettabile.

Questo però non è vero negli USA ed è anche un po’ merito di Bill Gates e del suo modo di intendere il “prodotto” software. Il problema non sta nel fatto di pretendere di essere pagati da chi può permetterselo, perché questo giustifica l’impegno nella creazione, ma nel fatto di imporre tale pagamento come una “royalty” slegata dall’effettivo investimento di tempo e risorse di produzione.

Per concludere, e tornando al contenuto della lettera, la questione delle royalty (se garantita dal pubblico, come accade con i brevetti software negli Stati Uniti) è un serio problema perché, economicamente parlando, impedisce il libero mercato.

Bill Gates non è diventato quello che è diventato per scienza infusa o per talento, né per eredità familiare. Ha studiato da persone che gli hanno insegnato, ha utilizzato risorse ed opportunità che gli stessi hobbisti, direttamente o indirettamente, hanno messo a sua disposizione, e ha sfruttato risorse universitarie. E’ giusto che possa guadagnare dal suo lavoro così come è giusto che lo possa difendere (il suo lavoro, non la sua creazione!) con i mezzi che preferisce, purché difenda il suo lavoro con privati e non pubblici.

Perché il pubblico deve garantire che possa guadagnare chiunque abbia la possibilità di accedere al medesimo , se interessato o se lo ritiene remunerativo, purché si sforzi come lui.

Altrimenti, che “libero mercato” è?


Marco Spedaletti

Informazioni su spotlessmind1975

Progettista, analista e sviluppatore, ho ideato e gestito soluzioni innovative per clienti di primaria importanza, privati e istituzionali, utilizzando diverse tecniche e linguaggi di programmazione. Attualmente sono consulente per la stesura di offerte tecniche mirate, e libero professionista orientato alla soluzione di problemi attraverso l’utilizzo dei computer (Software Problem Solver).