Quando un anime può rivelarsi una sorpresa. Questo è La ragazza che saltava nel tempo, un’opera sentimentale ma con un tocco di viaggi nel tempo, graficamente accattivante, dalla sceneggiatura non banale ma soprattutto dai risvolti filosofici molto interessanti: siamo davvero sicuri che cambiare il passato migliora il futuro? Saremmo davvero liberi di cambiarlo, se potessimo farlo, magari con un salto?
In questo lungometraggio i protagonisti sono due: una classica studentessa giapponese delle superiori ben inquadrata e amica di due ragazzi, tra i quali non sa scegliere (o meglio, sceglie di non scegliere) e il tempo che, come cita il film fin dalle prime scene, “non aspetta nessuno”. Un tempo che, però, può essere riavvolto secondo le esigenze di Makoto Konno, la studentessa appunto.
Tale capacità però non è innata.
Si tratta dell’esito di un incidente: perché in un laboratorio di scienze, dove si trova per rassettare alcuni libri, per sbaglio urta un congegno che le consente di viaggiare nel tempo.
Quando la fanciulla cade dalla propria bicicletta per essere travolta da un treno e inaspettatamente si salva, scopre che, se prende bene la rincorsa, può tornare indietro nel tempo ad un momento a scelta della sua vita. In tutto questo le farà da guida la zia, una restauratrice misteriosa, che sembra conoscere il potere della nipote ma allo stesso tempo la incoraggia ad affrontare il futuro senza sfruttare il potere di cambiarlo.
Ed è proprio in questo aspetto che l’opera si distacca dagli altri film sui viaggi nel tempo.
Prima di tutto, il focus è sulla capacità o meno di poter cambiare il presente e il futuro agendo sul passato, più che sul viaggio nel tempo vero e proprio. Il viaggio è, in effetti, quasi un espediente. Tanto è vero che più volte la protagonista, contrariata dal proprio insuccesso, decide di rivivere la medesima esperienza, cercando ogni volta di cambiarla per il meglio Questo sarebbe impossibile in un viaggio nel tempo “tradizionale”.
In secondo luogo, sembra valere un principio di compensazione o di “conservazione” degli effetti. Per esempio, se la protagonista si salva da un’incidente è perché qualcun altro lo subirà.
Infine, la richiesta di Makoto di conoscere il futuro da cui proviene la persona che per prima ha portato il congegno ai nostri giorni rimarrà senza risposta. Non perché risposta non vi sia, ma perché troppo dura è la risposta per la speranza, e anche perché sembra proprio impossibile modificare il futuro.
Questo mi ha fatto tornare in mente l’Esercito delle 12 scimmie, non tanto nella pazzia dei protagonisti o nel montaggio incasinato, quanto nella visione pessimistica del futuro e del comportamenti dell’uomo in generale: il viaggiatore nel tempo che viene dal futuro non può raccontare cosa accadrà, ma si raccomanda con Makoto di godersi quello che potrà, perché lui la raggiungerà nel futuro.
Del resto, questo viaggiatore non era tornato per trovare e vedere una certa tela, di cui si erano perdute le tracce? Curioso che la zia di Makoto sia proprio colei che la restaurerà, e la studentessa promette al viaggiatore di farla arrivare nel futuro… o forse lei e la zia sono la stessa persona?
Infine, pur con un sottofondo fantastico, è l’indecisione d’amore la vera protagonista della storia. In un contesto come quello giapponese non è semplice esprimere i propri sentimenti, e si vorrebbe “congelare” i rapporti così come li si è stabiliti. L’amicizia, la complicità e la fiducia maturati non hanno prezzo, in un mondo che si sente pressoché estraneo…
… però il tempo scorre e si devono fare delle scelte, perché il tempo non aspetta nessuno.